
Molti anni fa, pescando a bolentino con un vecchio signore al largo di Capo Falcone in Sardegna, capitò una cosa che rimase impressa nella mia memoria: improvvisamente, in un mare piatto come una tavola, fecero capolino dei delfini. Nonostante il mio giovane entusiasmo davanti a quello spettacolo della natura, il mio anziano compagno non sembrava condividere le stesse emozioni, tanto da far marcia indietro in pochi minuti abbastanza seccato della faccenda, mugugnando fra se “Delfini.., niente pesce”.
Nella mia inesperienza quella diventò una regola, un assioma, qualcosa insomma che doveva essere così e basta, come il cielo è azzurro e l’acqua è bagnata: non si discute.
Molti anni dopo, cambiano i personaggi, gli scenari ed anche i miei capelli, ora canuti: mi trovo in una località indefinita nel Pacifico orientale, quasi al confine fra la Colombia e Panama ed un uomo dai chiari tratti indigeni mi dice mentre scruta l’orizzonte: “hay delfines” (ci sono delfini) e dopo qualche secondo “pues tunas…, vamos?” (forse anche tonni…, andiamo?).
Pur non capendo granché del senso logico della domanda del capitano, ero sicuro di aver capito la fine della frase e ciò mi bastava: mentre ci dirigiamo a 30 nodi verso una zona imprecisata dell’Oceano Pacifico, tiro fuori le canne da caccia grossa mentre l’adrenalina comincia ad andare in circolo: è solo l’inizio di una brutta malattia conosciuta in molti luoghi dell’indopacifico e dell’atlantico, per cui ancora non esistono terapie e che provoca dipendenza: ahi tuna! (1)
Lo scenario che si presenta è surreale e quasi commovente per chi per la prima volta si confronta con un mare vivo come il pacifico, tanto da rapire per alcuni minuti gli angler venuti dal vecchio continente: centinaia e centinaia di delfini di ogni misura nuotano in superficie fra evoluzioni, salti e piroette, mentre la stessa barca viene letteralmente circondata e nel frattempo il capitano cerca di capire se i mammiferi siano soli o in buona compagnia.
La ragione della nostra incursione, che mise fine alla mia certezza fanciullesca, è dovuta al fatto che spesso e volentieri capita che insieme ai delfini o meglio ai purpoises (chiamati spesso tornillos, per via delle loro capacità acrobatiche) viaggino i tonni yellowfin, di dimensioni variabili a seconda delle stagioni e dei periodi.
In genere quello di dicembre-febbraio è il periodo migliore da queste parti, in cui catturare esemplari oltre le 250 libbre è una esperienza abbastanza comune, che con nostalgia ci fa ripensare ai trascorsi andati col nostro bistrattato bluefin.
Spesso le mangianze sono ben attive ed è uno spettacolo vedere i pinna gialla saltare e rincorrere le loro prede, cosi come lascia attoniti vedere palle enormi di sardine in superficie, che nuotano circolarmente e che quasi sembra fingano di essere morte implorando la grazia, mentre ogni tanto arriva fulminea e inesorabile una ennesima cacciata.
In altri casi lo scenario si sposta qualche decina di metri sotto il pelo dell’acqua, e quindi l’unico segno sensibile rimangono comunque i delfini (che in superficie ci devono tornare ogni tanto) e gli uccelli marini che pattugliano attentamente la zona in attesa del prossimo invito a pranzo.
(1) Alle Hawaii, lo yellowfin è chiamato ahi tuna, che significa “fuoco”, a causa del fumo che fuoriesce quando le lenze a mano sfregano sulle canoe di legno dei pescatori locali quando cercano di frenare a mano nuda le repentine fughe del tunnide.
testo e foto Antonio Varcasia